Fabio Cembrani, rielaborazione di Val di Stava. A trent’anni dalla catastrofe, in 112 Emergencies, 6, 2015

Professor Fabio Cembrani, medico specialista in medicina legale, già Direttore dell’Unità Operativa di medicina  legale dell’Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento, incaricato del riconoscimento delle vittime della tragedia di Val di Stava (Trento, Italia). Anche a distanza del lungo lasso di tempo oramai trascorso da quel tragico evento, la sua esperienza diretta è un’accorata testimonianza che valorizza il ruolo di chi è chiamato alla identificazione delle vittime delle calamità naturali per confermare il diritto della comunità dei superstiti di dare a loro una adeguata sepoltura anche per l’elaborazione del lutto.

Il 19 luglio del 1985 alle ore 12,20 il crollo dei bacini di decantazione della miniera di fluorite in Val di Stava (Provincia di Trento) causava la morte di 268 persone improvvisamente investite da 150mila metri cubi di acqua e di fango scesi a valle lungo il decorso del rio Stava, fino alla sua confluenza nel torrente Avisio, per un fronte di alcuni chilometri. Un altissimo numero di vittime – superato in Italia soltanto dalla tragedia del Vajont, che nel 1963 aveva causato quasi 2mila morti – perché in quel periodo di vacanza numerosi erano i turisti  ospiti dei tre alberghi, come pure numerosi i proprietari delle villette che, in quel momento della giornata, erano per lo più radunati con i familiari per la consumazione del pranzo.
Lo scopo di questa testimonianza è quello di descrivere l’organizzazione del soccorso in generale, e dell’intervento medico-legale in particolare, posti in essere in occasione della tragedia, per sottolineare l’importanza del ruolo di chi è chiamato alla identificazione delle vittime di calamità naturali perché anche in questo campo della protezione civile non ci si può più accontentare della sola improvvisazione.
Restando un ineludibile dovere umanitario quello di dare sempre un nome ed una precisa identità alle vittime in modo che le loro famiglie e la comunità le possa accompagnare, in ogni Parte del mondo, nel loro ultimo viaggio.

L’organizzazione dell’intervento sanitario

Sono arrivato sul luogo della sciagura verso le ore 17.30 del 19 luglio del 1985, 5 ore dopo l’onda di fango che ha travolto il paese di Stava. Le operazioni di soccorso coordinate personalmente dal Ministro della Protezione civile, Giuseppe Zamberletti, erano in fase di organizzazione nel Centro Operativo subito organizzato nel Municipio di Tesero, a 3 km da Stava, e già le prime vittime della tragedia recuperate erano state composte nei locali della palestra delle scuole del paese.

Dopo aver preso contatto con le Autorità civili e militari del Centro Operativo ed aver capito la dinamica della tragedia, si decise di procedere ad un sopralluogo sul luogo del disastro, per verificare in loco l’organizzazione delle operazioni di scavo e di recupero delle vittime della tragedia. Man mano che risalivo la strada su di un mezzo
militare, mi sono reso conto della gravità della sciagura convincendomi – purtroppo – che ben pochi superstiti avremmo trovato. I problemi sanitari che ci trovammo immediatamente a dover affrontare furono inizialmente quello di identificare un luogo idoneo per la composizione delle salme e quello di assicurare la loro conservazione
nel tempo per favorire la fase identificativa.

Relativamente al primo problema si doveva, ovviamente, individuare una struttura con caratteristiche tali da offrire da un lato condizioni microclimatiche idonee, dall’altro una ubicazione topografica ottimale per favorire l’accesso dei parenti delle vittime, oltre a ospitare le vittime stesse. Scartate, per ovvi motivi di spazio e di rispetto della pietas, rispettivamente la piccola camera mortuaria dell’Ospedale e l’unica struttura della zona attrezzata con celle frigorifere – il macello comunale – si optò per la Chiesa Parrocchiale di Cavalese, a 7 km da Stava, la quale poteva garantire da un lato il rispetto della dignità dei defunti, dall’altro spazio sufficiente per contenere le vittime della tragedia e l’accoglienza dei parenti, dall’altro ancora condizioni micro-climatiche ottimali, ciò che rappresentava un problema di non facile risoluzione considerata la stagione in cui si doveva operare.
Ciò comunque nell’attesa di identificare una struttura più idonea per i fini identificativi; e, a tal proposito, si operò in collaborazione  con il Commissario del Governo[1] di Bolzano e con l’Autorità giudiziaria di Egna (Bolzano), per il sequestro di un grande magazzino refrigerato – utilizzato per la conservazione della frutta – ubicato nella vicina città di Ora, a circa 30 km da Stava.
Per favorire la conservazione dei cadaveri furono date le opportune disposizioni affinché ogni salma recuperata venisse sottoposta ai consueti trattamenti antiputrefattivi con formalina somministrata nell’addome.
Organizzammo, in collaborazione con le locali autorità sanitarie, presso l’Ospedale di Cavalese, un primo centro di raccolta delle vittime della tragedia; in questa sede, le salme recuperate venivano opportunamente lavate per essere poi trasferite, su autoambulanze della Croce Rossa, alla Chiesa Parrocchiale per la successiva identificazione. Aiutati nel lavoro di composizione delle salme da numerosi militari e dalle volontarie della Croce Rossa, procedemmo per tutta la notte alla descrizione dei cadaveri e dei reperti anatomici che le squadre di soccorso via via recuperavano perché all’epoca non si poteva disporre dell’indagine genetica usata oggi ai fini identificativi.
Queste operazioni continuarono ininterrottamente per tutta la successiva giornata del sabato e per parte della domenica, giorno in cui si decise di trasferire i cadaveri non ancora riconosciuti nei locali refrigerati del Magazzino di Ora che nel frattempo erano stati completamente liberati ed attrezzati allo scopo. Le operazioni di trasferimento delle salme avvennero usando i mezzi dell’Esercito. Indubbiamente l’organizzazione del lavoro in questa seconda sede risultò molto più razionale.
Innanzitutto perché si riuscì a suddividere il lavoro di identificazione delle salme in più squadre medico-legali coadiuvate da personale tecnico di sala anatomica. Inoltre, e soprattutto, si riuscì così ad organizzare un unico coordinamento sanitario in grado di gestire organicamente la gran mole di rapporti con le Autorità civili e militari, con la Magistratura e gli Organi di Polizia, con i responsabili del volontariato, tutti impegnati nell’azione di solidarietà alle famiglie delle vittime. Straordinaria fu, a tal proposito, come per tutto il resto della tragedia, la collaborazione offerta dalle volontarie della Croce Rossa Italiana e della Caritas. L’ottimizzazione del lavoro fu anche dovuta al fatto che, ad Ora, l’operatività medica fu solo ed esclusivamente di natura medico-legale, mentre nel corso dei primi giorni grandi energie e sforzi da parte degli operatori sanitari furono necessariamente rivolti alla messa a punto di interventi di natura igienico-sanitaria; così per la periodica disinfezione con vapore di sale di ammonio quaternario della Chiesa Parrocchiale di Cavalese e delle autoambulanze su cui venivano trasportate le salme recuperate; per la organizzazione di una opportuna profilassi vaccinale antitifica ed antitetanica erogata per mezzo di una assistente sanitaria; per il controllo delle sorgenti e delle opere di presa della zona al fine di conoscere  tempestivamente eventuali forme di inquinamento chimico e/o batteriologico; per il recupero ed il trattamento, in collaborazione con i veterinari di zona, delle numerose carcasse di grossi animali coinvolti nella tragedia ed in preda a vistosi precoci fenomeni putrefattivi.

Le operazioni di riconoscimento delle salme continuarono in questa sede fino al 25 luglio con un carico di lavoro giornaliero sempre superiore alle 10-12 ore. Le salme riconosciute erano trasferite nei relativi luoghi di provenienza; le salme non riconosciute e i reperti anatomici vennero invece tumulati nel vecchio cimitero la cui area nel frattempo era stata notevolmente ingrandita con un’opera di sbancamento durato ininterrottamente per alcuni giorni e alcune notti. Con il 25 luglio, l’equipe medico-legale si trasferì presso la piccola sala anatomica dell’Ospedale di Cavalese dove erano state opportunamente predisposte due celle frigorifere prefabbricate per la conservazione delle salme.
Localizzando il lavoro in una sede stabile e con la possibilità quindi di avere strumenti operativi più adeguati è stato possibile istituire ed attivare un sistema informativo che ha consentito l’inserimento in archivio di tutti i nominativi dei dispersi con i relativi dati anagrafici, somatici, segni caratteristici e particolari, utili al possibile riconoscimento
delle salme recuperate. Tale archivio, aggiornato con i risultati delle indagini medico-legali via via che esse venivano prodotte ed in particolare con i dati desunti dallo studio odontostomatologico [2] , è inoltre risultato utile per l’intervento economico stabilito dalla Giunta Provinciale di Trento a favore dei familiari superstiti appartenenti allo stesso nucleo familiare delle vittime, o in relazione di parentela in linea diretta fino al 2° grado. Presso l’Ospedale di Cavalese si operò ininterrottamente fino al 4 settembre, giorno dell’ultimo riconoscimento e giorno in cui  terminarono le operazioni di scavo e di ricerca delle vittime della tragedia di Val di Stava. Ciò non prima di aver ripetutamente utilizzato le unità cinofile della Croce Rossa svizzera e scandagliato, con telecamera subacquea, il lago di Stramentizzo per l’ulteriore ricerca di vittime, almeno nei punti in cui la visibilità lo permetteva.

Risultati
Le operazioni di riconoscimento delle vittime della tragedia di Val di Stava sono state  particolarmente difficili per due sostanziali ragioni: (a) perché all’epoca non era disponibile la tipizzazione genetica che oggi consente di identificare i resti umani non riconoscibili delle persone scomparse; (b) per la particolare tipologia della lesività che ci era di fronte, caratterizzata dalla presenza di importanti fenomeni traumatici strettamente connessi alla dinamica della tragedia con il trascinamento a valle, lungo un tragitto superiore ai 4 km, di molti corpi. E ciò che sul lato traumatico non aveva direttamente causato la discesa a valle della massa di fango, in parecchi casi venne provocato dai mezzi meccanici costretti a scavare e a ricercare i corpi delle vittime sotto depositi alti, in alcuni punti, più di 8 metri. I risultati della attività sono ricostruibili  attraverso l’esame dei 248 verbali di visita necroscopica redatti in occasione dell’intervento. Per ognuno di essi sono stati riportati, su una scheda predisposta allo scopo, alcune variabili comprensive dei dati anagrafici della persona deceduta, del sesso, del luogo di provenienza, del tipo di riconoscimento effettuato (diretto ed indiretto) e, infine, relativamente al riconoscimento indiretto, gli elementi di natura estrinseca (indumenti, documenti, effetti personali) e di natura intrinseca (descrizione del cadavere, formula dentaria, descrizione di cicatrici, riscontro di malformazioni e di eventuali patologie in atto, determinazione del gruppo sanguigno) oggetto dell’analisi medico-legale. Di proposito sono stati presi in esame unicamente gli esiti delle visite esterne su cadavere, tralasciando la folta documentazione riguardante i numerosissimi resti anatomici, la quale in ogni caso testimonia l’enorme sforzo di tipo descrittivo medico-legale eseguito in occasione dell’intervento.
Complessivamente, sul totale delle 268 persone decedute a causa del crollo dei bacini di decantazione della miniera di Prestavel, 201 sono state le vittime riconosciute a cui è stato possibile attribuire una identità (74,9%), 47 quelle non riconosciute (17,4%), mentre 20 (7,4%) sono risultati i dispersi. Tra le salme non riconosciute 20 sono state quelle in cui non fu possibile rilevare elementi utili ai fini identificativi; 27 sono stati invece quelle che, pur non identificate, offrivano elementi utili ai fini identificativi. Dei 201 cadaveri riconosciuti, 126 (47%) sono stati quelli direttamente riconosciuti dai familiari mentre 75 (27,9%) furono quelli identificati sulla base degli elementi descrittivi rilevati attraverso l’esame medico-legale. E a tal proposito, buoni sono stati i frutti dati dallo studio delle impronte dentarie eseguito sistematicamente su 97 cadaveri che avrebbero potuto essere ancora più evidenti se i numerosi medici interpellati avessero conservato memoria/traccia documentale delle cure odontoiatriche praticate in vita alla persona.

Conclusioni
In ogni caso, questa personale esperienza ci è sembrata utile per riproporre all’attenzione del Governo del nostro Paese, alle Autorità politiche locali ed a quanti si trovano, istituzionalmente e tecnicamente, a dover far fronte ai problemi derivanti dagli accadimenti catastrofici naturali, quanto condiviso a livello internazionale: un buon
intervento di protezione civile non può prescindere dall’esigenza di soccorrere le persone ferite, di dare una giusta identità alle vittime e di sostenere sul piano psicologico le loro famiglie. Tutto questo richiede team specializzati adeguatamente formati evitando le incertezze, le improvvisazioni e le mal accortezze che accadono ogni qual volta non si è preparati agli eventi catastrofici che possono sempre  accadere. Alcune conclusioni sono comunque possibili alla luce della nostra esperienza:

1. L’intervento deve essere il più rapido possibile e posto in essere con personale specializzato – non solo medico – adeguatamente attrezzato allo scopo, preparato e sempre pronto all’emergenza.
2. In fase operativa è indispensabile organizzare un centro di coordinamento sanitario unico, con autonomia gestionale, in grado di dirigere e supervisionare il lavoro dei diversi team in modo da evitare qualsiasi frammentazione dell’attività.
3. Nel team di soccorso dovrà essere sempre presente un nucleo di professionisti specificatamente dedicati alla composizione delle salme, alla loro eventuale conservazione in luoghi adeguati e al processo identificativo.
4. L’identificazione delle vittime, al di là delle straordinarie opzioni oggi offerte dall’indagine genetica, deve comunque avvalersi delle tradizionali tecniche di indagine di morfologia descrittiva.
5. La dignità della persona umana non cessa con la sua morte, indipendentemente dal contesto culturale, politico e religioso di accadimento dell’evento catastrofico.

Stava (Trentino, Italia), 1985. Operazioni di soccorso e recupero delle salme

Stava (Trentino, Italia), 1985. Strutture alberghiere e altri edifici crollati